Debitrice della tradizione dei romanzi filosofici, Le storie infrante è un’opera che utilizza la fiction per affrontare il tema quanto mai concreto e doloroso della follia, coniugandolo con quelli del tempo, della memoria e dell’identità. Protagonista ne è uno psichiatra e psicoanalista che, dopo decenni di lavoro in una città lontana, oltreconfine, torna nei luoghi della sua formazione, richiamato dalla malattia terminale di un amico.
Debitrice della tradizione dei romanzi filosofici, Le storie infrante è un’opera che utilizza la fiction per affrontare il tema quanto mai concreto e doloroso della follia, coniugandolo con quelli del tempo, della memoria e dell’identità. Protagonista ne è uno psichiatra e psicoanalista che, dopo decenni di lavoro in una città lontana, oltreconfine, torna nei luoghi della sua formazione, richiamato dalla malattia terminale di un amico. Nel corso del viaggio i ricordi personali si intrecciano con quelli dei pazienti con cui ha condiviso un tratto di esistenza, che divengono protagonisti dei racconti della parte centrale del libro. Gli eventi che pure si susseguono drammatici sono come interrogati e scardinati dall’atmosfera di atemporalità in cui sono sospesi, sino al riemergere del presente, destinato tuttavia a trasfigurarsi anch’esso, incalzato dal confronto con il dolore mentale, nella forma astorica della parabola.
L’impianto narrativo tradizionale del romanzo si arricchisce, a un secondo livello di lettura, di una riflessione sul significato della narrazione, colta, come suggeriva il filosofo Paul Ricoeur, al crocevia tra racconto e memoria, tra storia e finzione, e votata a generare una sorta di reale immaginario e insieme una dislocazione del soggetto narrante che progressivamente perde il privilegio dell’Io. E infatti, alla fine del libro, attraverso un interscambio tra la prima e la terza persona, il narratore sembra far sua l’istanza etico filosofica del sé come un altro, ma viene sorpreso dall’emergere improvviso dell’altro come un sé, che rimanda piuttosto ai processi di identificazione che attraversano sia l’esistenza che la relazione psicoterapeutica.
Giuseppe Martini è psicoanalista, membro della Società Psicoanalitica Italiana, primario psichiatra del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale S. Spirito (Dipartimento di Salute Mentale Roma 1). Autore di oltre cento lavori e di diversi volumi, si è occupato in particolare dei rapporti tra psicoanalisi e ermeneutica (Ermeneutica e narrazione, Bollati Boringhieri 1998, La sfida dell’irrapresentabile, Franco Angeli 2005) e di psicoterapia delle psicosi (La psicosi e la rappresentazione, Borla 2011. Ha curato insieme a Vinicio Busacchi il volume Tra immagine e parola. Passaggi e paesaggi, Fattore Umano Edizioni 2015.
Questa è la sua prima opera letteraria.
Recensione
G. Martini, Le storie infrante, 2016
Recensione di Maria Ilena Marozza Pubblicato su “Quaderni di Cultura Junghiana” Numero Extra 2016Nelle nove storie che compongono la prima opera narrativa di Giuseppe Martini, una frase ricorre con insistenza, come per segnalare l’evento centrale delle vite che vengono raccontate: “poi qualcosa si ruppe”. Di storie infrante infatti si parla, di storie interrotte da un evento psicopatologico che cambia drasticamente il senso e il corso di queste vite. Da conoscitori della storia della psicopatologia, sappiamo dare un nome a questi eventi, li riconosciamo nella descrizione jaspersiana del processo, di quell’evento d’interruzione radicale dell’evidenza e della partecipazione al mondo condiviso che confronta chiunque tenti di rapportarsi a esso con la categoria dell’incomprensibile. Moltissime storie cliniche sono state descritte nei testi di psicopatologia fenomenologica per evidenziare le alterazioni strutturali di questi modi alterati di vivere l’esperienza, fino a scandagliare aspetti sottili e profondissimi sui quali si costituisce il vissuto umano, e su queste descrizioni si basa in genere il diagnosta che voglia tentare di comprendere dall’interno la sofferenza psichica.Nel libro di Martini si fa invece qualcosa di diverso, qualcosa che ci confronta con un tipo di operazione sulla quale forse non si è ancora abbastanza riflettuto nella comunità di coloro che si riconoscono psicoterapeuti: ci si confronta, cioè, con il tentativo di costruire una narrazione là dove non c’è nulla che possa essere essere narrato, là dove c’è un vuoto, un’interruzione, una mancanza, una frattura che rende impossibile una continuità narrativa. Là dove, dunque, l’incomprensibile si è insediato a costituire un’impossibilità rappresentativa, o un’intransitività comunicativa. Non si comprende la follia: su questo impopolare assunto jaspersiano dobbiamo insistere per cogliere la qualità di quell’essere fuori dal mondo e dal senso comune da cui si genera il sentimento di spaesamento, la vertigine esistenziale che caratterizza ogni contatto con la follia. Ma qualcos’altro si può fare, una volta preso atto di quell’incomprensibile frattura: si può tentare di immaginare, si può tentare di costruire una narrazione di quello che forse potrebbe essere quel mondo, e di fantasticare sul modo in cui potrebbe essersi costituito. Come diceva un grande clinico, Pierre Fédida, di fronte all’incomprensibile, all’orrore dell’inimmaginabile, il compito dell’analista è di continuare a immaginare.Un processo, questo, che non ha niente a che fare con i modi identificativi della comprensione empatica tanto che Fédida lo definiva piuttosto neghempatia poiché non si costituisce nella similitudine con l’altro che abbiamo davanti: esso si distende piuttosto su quel vuoto di rappresentazione, su quel difetto di comunicazione interpersonale, su quell’incomprensibile altro, nel tentativo di costituire un ambiente di pensieri e di rappresentazioni in attesa, forse, di essere abitate. Come nel racconto Passeggiate nel vuoto, ove al nulla rappresentativo di Aurora, la fanciulla che in analisi non sapeva dire altro che “niente, come al solito”, si contrappone il tentativo dell’analista di immaginare pensieri non pensati, sentimenti non vissuti, desideri non provati, fallendo, approssimando, qualche volta catturando l’attenzione e facendo lentamente crescere la possibilità e la disponibilità della ragazza a costruire una rappresentazione della propria storia.
Certamente, in questo modo le narrazioni si costituiscono nella capacità immaginativa del terapeuta, stimolata dal contatto con il suo paziente, e portano il segno della sua soggettività, della sua storia personale, dei suoi ricordi, delle sue capacità inventive e dell’affinamento di queste indotto dall’educazione della sua sensibilità e competenza.Martini, che ha lavorato lungamente in senso teorico e clinico sulla narratività e sul suo valore per la costituzione dell’identità umana, compie in questo volume un passaggio che rende maggiormente visibile quella sottile operazione immaginativa che agisce nella soggettività di ogni psicoterapeuta ogni volta che si trova autenticamente impegnato ad ascoltare i suoi pazienti. Questo ascolto oggi ha perso ogni connotazione recettiva ingenuamente realistica, configurandosi piuttosto come un’attività altamente complessa, ricca di risonanze sinestesiche, mnestiche e immaginative, tanto da poter essere considerato tout-court come una funzione poietica, in cui pezzi di esperienza dell’uno entrano in risonanza con frammenti di memoria dell’altro, nella creazione di nuovi intrecci, di nuove narrazioni delle quali è tributario il senso.
In questo volume, nell’abbracciare fino in fondo la finzionalità del raccontare, Martini riesce a mostrare con maggiore libertà ed evidenza le potenzialità di verosimiglianza del narrativo, intessendo le sue storie nei margini di contatto tra le esperienze storico biografiche dello psichiatra narratore e le vite di persone che hanno sperimentato l’incontro con quegli eventi spaesanti, con quelle fratture troppo spesso riduttivamente considerate dalla psichiatria solo come perdite desoggettivanti. In questo modo, l’estraneamento che promana da quelle vite così profondamente segnate mostra la propria capacità di permeare intimamente la vita del narratore, generando un’atmosfera di sospensione in cui il confronto con l’incomprensibile sembra divenire la cifra stessa dell’esistenza e dell’interrogarsi umano.Le storie raccontate sembrano scaturire proprio dalla difficoltà di narrare quell’evento di rottura, dato che chi lo ha vissuto sembra aver perso, o non aver mai acquisito, la capacità di raccontarlo. Ed è da questa sospensione inspiegabile che la finzionalità narrativa prende l’avvio, quasi avvalendosi di una suspence che mette il lettore in attesa di uno svolgimento risolutivo. In questo punto il racconto di finzione rivela al massimo grado la sua efficacia, nel momento in cui assume quell’evento come l’origine di una domanda, alla quale cerca di rispondere allontanandosi dai vincoli di una realtà troppo convenzionalmente definita, lasciando piuttosto emergere le potenzialità di un’inventiva capace di ipotizzare, di creare intrighi, di distendere un intreccio narrativo che cerca di comporre le possibili radici e le eventuali conseguenze di quell’evento nella temporalità dell’esistenza umana.
Incontriamo così vite spezzate alle quali riusciamo immaginativamente a dare un senso, riusciamo a seguire la genesi di un delirio erotomane, a figurarci l’insediamento di depressioni inspiegabili su antichi vuoti luttuosi, a scorgere qualche possibilità di restaurare un contatto affettivo con gli oggetti perduti per mezzo del refrain di una canzonetta, o della “casuale” scoperta di un luogo di gioco infantile. E riusciamo anche a immaginare la devastazione di vissuti affettivi segnati dall’abbandono e dalla trascuratezza, o a cogliere le paradossali analogie di storie che si intrecciano, incrociando percorsi di vita e diramandosi in altre storie. E specialmente riusciamo a scorgere come la follia degli altri si insinui nelle nostre vite e possa produrre in esse degli effetti di senso, per lo meno quando diviene domanda aperta anche sul nostro incomprensibile. In fondo, come ci ricorda l’appassionata ricerca sulla narratività di Paul Ricoeur, è nel lettore che si compie l’ultima, e forse più importante riconfigurazione del racconto di finzione, quando cioè, nell’atto di lettura, le possibilità verosimili dischiuse dal mondo del testo ritornano a dispiegarsi nella vita effettiva dei lettori.
Recensione di Lorenzo Sconocchini su corriereadriatico.it
G. Martini, Le storie infrante, 2016
Recensione di Vinicio Busacchi – Professore associato di Filosofia teoretica – Università di Cagliari Pubblicata su: Spiweb il 22 Febbraio 2017
Il romanzo Le storie infrante è l’opera narrativa prima dello psicoanalista e psichiatra Giuseppe Martini, membro della Società Psicoanalitica Italiana e primario psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale Roma 1. Noto per le sue ricerche sulla psicoterapia delle psicosi, per i suoi itinerari di ricerca ermeneutici nel campo della teoria psicoanalitica e per l’applicazione dell’ermeneutica in campo terapeutico e clinico, Giuseppe Martini realizza qui qualcosa che va oltre la sintesi o gioco-divertissement letterario a partire da un itinerario professionale e di studio di medicina, psicoanalisi e filosofia. Ci pare che il referente filosofico princeps (qui), Paul Ricœur (1913-2005), offra non solo le chiavi per cogliere questo ‘oltre’, ma per leggere e intendere questo doloroso e luminoso intreccio di storie di vita il cui motivo/effetto di unità in romanzo deve darsi in una trama che leghi le vicende tutta da comprendere. L’unità risiede nel significato riflesso attraverso le riflessioni della voce narrante, nel gioco di rimandi tra memoria di vissuti personali (genuino autobiografismo!), esperienza terapeutica e clinica, incontro con l’altro e con l’alterità/alienità della malattia mentale (sovente enigmatica, fascinosa, magica; sovente disperata, estrema, insopportabile).
Nove i capitoli di questo romanzo. Nove vicende di vita che sono anche nove diverse storie di malattia mentale e sofferenza che l’autore racconta con espressività ricca e penetrante, e con un tale, stupefacente, senso di vicinanza e comprensione dei vissuti da trasmettere tanto, quasi, un’idea fisica di presenza – come di fatti veri e vivi che corrono sotto gli occhi del lettore – quanto, quasi, un’idea metafisica di penetrazione conoscitiva – nelle menti, nelle storie, tra le sensazioni, le ideazioni, le angosce e i deliri, i silenzi e le vertigini (interminabili), dei malati. Quest’ultima, non è rivelatrice di alcuna “presunzione”, circa capacità conoscitive esatte, assolute. Né queste storie sono storie di soli “pazienti”; anzi, talvolta esprimono esperienze così significative e “topiche” da portare a maturazione e segnare una svolta:
Andrea Dadda («In rapida sequenza rividi l’espressione mite e tenera di Andrea e il volto di Giovanni segnato dall’angoscia mentre si agitava sul suo letto d’ospedale, e quasi sentii risuonare per la stanza, insistente e ossessivo quel grido: “Andrea Dadda è morta, Andrea Dadda è morta!”// Da allora la schizofrenia e la morte sarebbero per me rimaste legate in un allaccio feroce e romantico, di cui non avrei trovato la ragione ultima né nell’angoscia di morte dei miei pazienti, né nei loro tentativi di suicidio, né nei loro deliri di negazione, bensì in quel grido strozzato, senza forma e senza tempo, in quel dolore straboccante che, per incommensurabili vie, io e Giovanni ci eravamo trovati a condividere» [p. 34]); la protagonista (il cui nome non è detto…) di “Tutti ar mare”(«Si trovò come immersa in un vortice di personaggi, suo padre, suo figlio minore, Carlo, l’altro figlio, senza più riuscire a capire quale fosse il suo posto, la sua identità, ritrovandosi disorientata e persa in tutta questa girandola.// Dopo aver speso così tanta energia nel rassettare il bagno, ora vagava confusa, inerte, con uno straccio che le pendeva dalla mano» [p. 50]); Steno («Cominciò a riavvertire in modo abbastanza improvviso quei timori che sembravano definitivamente sopiti dopo vent’anni […]. Erano iniziati sui quindici anni con insistenti tachicardie che si erano tradotte, dopo che aveva legato amicizia con un compagno di scuola cardiopatico, in una terribile paura di essere colto da infarto» [75]); Isabel e la mamma Carola («Dopo aver vegliato l’amato padre nel corso della lunga malattia […], la cara mamma non aveva resistito al dolore della separazione e il giorno stesso del funerale…» [p. 98]); Luigi («La nebbia era in ogni caso tutto ciò che ricordava di sé bambino, del prima e del dopo» [p. 131]); Clarissa («… senza dimenticare che di maschera si trattava. Eppure sempre più spesso aveva cominciato a chiedersi se non ne indossasse due, una il giorno e una la notte. Questo la spaventava ancor più per il timore che nello scambiarle, togliendosi l’una per indossare l’altra, in quel brevissimo frammento di tempo sentisse che quel vuoto aveva eroso il suo volto e non ritrovasse, sotto le maschere, alcunché di sé stessa, solo pulviscolo che vagava nell’aria» [pp. 176-177]); Aurora («Quando avvertiva questa voce, immobilizzandosi e concentrandosi il più possibile per meglio ascoltarne il sussurro, sentiva che per un attimo quel grande e desertico spazio vuoto entro di sé finalmente si restringeva, come se quella preghiera bisbigliata riuscisse a comprimerlo e delimitare un confine» [p. 202]); Margherita («Come volevasi dimostrare anche voi siete una masnada di torturatori infami […]»; «il canto di Margherita, ora intonato sulle note di Figaro, si percepiva distintamente già prima di varcare la soglia» [pp. 240 e 241]); Giuseppe («Intanto Giuseppe progressivamente cambiava, ma in modo così impercettibile che a prevalere era un’impressione di staticità» [p. 278]).
Storie di depressione, di ossessione, di delirio, di psicosi maniaco-depressiva, di dolore, di violenza, di decadimento e morte: uomini e donne che percorrono, nella loro esistenza, il dramma di una certa malattia mentale. E di una certa esistenza. Donne e uomini portati al dunque dalla malattia mentale… (La malattia è percorso in sé e per sé? È percorso nell’esistenza, per l’esistenza? Percorso di fuga dall’esistenza, di ritorno all’esistenza?)
Oscurità e luce.
Questa [sorta di] “metafisica della comprensione” che pervade tutta la scrittura di Martini, che pervade tutto il romanzo, si spiega con la motivazione speculativa di fondo, con la sostanza riflessiva ed ermeneutica che dà significato a questo romanzo – romanzo certamente collegabile al genere letterario sudamericano del realismo magico (come detto nel piatto inferiore del volume), ma anche al genere del romanzo filosofico (per giunta, secondo una singolare sovrapposizione, suggellata dalla profonda asserzione, in frammento, di Paul Ricœur, in esergo: …nel punto in cui l’immaginazione e la memoria s’incrociano sull’enigma della presenza dell’assente).
Ecco, qui, rivelatore è il sottotitolo (che non compare in copertina): Le storie infrante… dove cessa il dominio del tempo. Dunque, un romanzo che non “semplicemente” racconta storie di sofferenza e malattia mentale, ma interroga il senso dell’esperienza umana, della sofferenza, e il quid dell’identità umana – anzitutto attraverso l’interrogazione dell’effetto del vissuto nel tempo (e del tempo nel vissuto). Una interrogazione instancabile, percorsa come per cerchi concentrici, per tornanti e svolte, attraverso luoghi di ieri e di oggi, percorsi nella solitudine meditativa del viaggio (specialmente in moto), nelle passeggiate distensive e di dialogo con i colleghi e i proches, nella meditazione solitaria dei paesaggi:
«Così, mentre si inerpicava percorrendo in senso inverso la medesima strada che l’avrebbe condotto al suo paese, ora stretta e scoscesa, e il paesaggio si faceva sempre più collinoso, i campi più segmentati dalle vigne la cui presenza s’infittiva a ravvivare la monotona distesa della terra oramai privata del suo frutto più consueto, il grano, la memoria si attardava su un evento preciso e ricorrente, che solo recentemente era tornato alla sua mente, dopo aver riposato per anni in quello che probabilmente lui avvertiva, nel succedersi incalzante di congressi, viaggi, lavoro, un semplice oblio della insignificanza» [pp. 262-263].
Instancabile interrogazione che riprende narrativamente il lavoro clinico e di psicoterapia, questo variato, di volta in volta, non per il “semplice” variare dei casi, piuttosto dei rimandi di essi agli enigmi più profondi dell’identità umana e della vita.
«Nella sua spettrale sventura – afferma Gadamer –, la malattia mentale resta ancora un sigillo, il quale attesta che l’uomo non è un animale intelligente, ma è un uomo»: tutta la forza di questa verità, e della dimensione dell’umano, al di là di ciò che lo fa, che ci fa animali e intelligenti, è abbracciata nella scrittura da Giuseppe Martini, – sebbene sia chiaro essere Ricœur, come già detto, il referente filosofico primo –, scrittura su cui si interseca, come un asse verticale, un altro punto di vista specifico, quello di Karl Jaspers, pensatore e medico sempre al limite tra psicopatologia e speculazione. Se nella sua produzione scientifica, Martini va studiando e approfondendo di quest’ultimo, in modo particolare, la nozione di incomprensibile quale dimensione al crocevia o, meglio (?), quale realtà dialettica disposta tra inconscio ed esistenza o libertà (e che Martini mette in relazione con la nozione di intraducibile), di Ricœur, Martini, fa propria l’idea di identità narrativa – che, per altro, il filosofo francese elabora sulla base della lezione psicoanalitica (a proposito della capacità psicologica di recuperare e risignificare il vissuto, a proposito della strutturazione narrativa della storia di vita, e dunque della possibilità di ritrovamento di sé per mezzo di trame ricucite “terapeuticamente” e non, di recupero del vissuto doloroso nel racconto [del vissuto che diventa accettabile e sensato proprio grazie al racconto…]). Una teoria, questa dell’identità narrativa, che è parte della “risposta” alle critiche antisostanzialistiche sull’identità umana, e che centra il punto della costruzione narrativa dell’identità personale (perché “individui” si nasce, mentre “persone” si diventa…), tra passato che ritorna nell’esperienza sintomatica, nel ricordo, nel groviglio di idee e sensazioni, nell’interrogazione riflettente, investigante, interpretante, nel lavoro della memoria, dei silenzi, del tempo.
Nelle «storie infrante», «il dominio del tempo» «cessa» in questo senso: nel senso preciso del collasso della trama. Del collasso della trama per il collasso del senso unitario, narrativo. E viceversa.
Se non posso raccontare quel che ho vissuto, quel che ho vissuto non ha senso, quel che vivo non ha senso. Persino, che viva… non ha senso. Eppure qui, Martini, pare offrire una nuova risposta. Una risposta che corre tra le pagine del romanzo, fino alle ultime battute e alla citazione con cui il romanzo si chiude: ancora Ricœur: «Torniamo sempre alla questione della sofferenza: la sofferenza insopportabile e la sofferenza sopportabile». È una risposta che ci riporta al dilemma dell’‘oltre’ richiamato sopra e che pare sciogliere il nodo della tenuta di questi nove racconti nell’unità del romanzo.
Infatti, come questa unità di forma e senso è resa tale dalla scrittura di una presenza viva (variamente vincolata alle vicende e variamente partecipe di esse), così la vita umana stessa, vissuta, sofferta e raccontata, non lo è mai tale solo per se stessa, solo in se stessa. Sempre, la scommessa dell’insopportabile riguarda non solo le possibilità e capacità personali e soggettive. Immancabilmente, essa, chiama in campo il talento della risposta dei cari e dei proches, dei medici, dei conoscenti, degli altri.
E perciò… se non hai potuto raccontare quel che hai vissuto, quel che hai vissuto (e che vivi) ha comunque senso. Perché io lo racconterò per te.